Se un contratto non si rinnova a perderci è il sistema Paese
Per ritrovare una firma sul contratto nazionale dei lavoratori del terziario si deve risalire al 2015 ed il contratto è poi scaduto nel 2019. Il Contratto Collettivo Nazionale di Lavoro del settore terziario comprende i diritti e doveri dei lavoratori impiegati nell’erogazione di servizi o operanti nel mondo del commercio, compreso di recente anche quello della vendita online. Il CCNL terziario di riferimento si applica a tutte le imprese che trattano i settori legati all’alimentazione, alle piante e ai fiori, ai beni e ai prodotti industriali, agli ausiliari e a quello dedicato all’erogazione di servizi alle persone, alle aziende e alla rete.
Fino allo scorso anno, l’ultima trattativa firmata da Fisascaf Cisl, Filcams Cgil, Uiltucs e Confcommercio risaliva al 30 marzo 2015. In seguito il testo è stato integrato con due accordi e il rinnovo, nel 2016, di quello con Confesercenti, in vigore fino al mese di luglio 2018. Il 19 dicembre 2018, i sindacati di categoria e FederDistribuzione hanno firmato un nuovo contratto nazionale, aggiornando tutte le informazioni presenti e hanno incluso nel CCNL terziario anche le aziende che si occupano di GDO, le catene di negozi, i franchising, l’ingrosso, i cash&carry e i siti dedicati allo shopping online.
Poi il buio.
Nulla dal punto di vista normativo, nulla sulle retribuzioni aggredite pesantemente dall’inflazione.
Si registrano pochi casi sporadici ed a fronte di risultati economici positivi di singole aziende che hanno erogato una tantum indipendenti dal contratto, un esempio Esselunga che ha concesso circa undici milioni di euro per dare un aiuto concreto in difesa dell’inflazione con 500 euro a testa per i 25.000 dipendenti del Gruppo.
Un dipendente con contratto da Quadro con uno stipendio di 2.700 euro ha perso dal 2015 ad oggi 436,80 euro (Indice Istat utilizzato: FOI generale) ed il suo stipendio ha un potere di acquisto oggi pari a 2.263,20 euro.
La paziente attesa del rinnovo del contratto dura ormai da quattro anni. Le trattative sono riprese in videoconferenza e le sigle sindacali hanno presentato le loro proposte. Gli appuntamenti programmati fino a maggio 2023 non hanno portato novità.
Manca sempre al tavolo una voce autonoma e fortemente rappresentativa dei Quadri direttivi italiani.
A dicembre 2022 è stato siglato comunque un accordo ponte sugli aspetti economici con aumenti in busta paga e una tantum 2023 (ne scriviamo in questo articolo) valido per tutti i contratti del settore.
Registriamo come nello stesso periodo i dirigenti del commercio hanno portato a casa, con accordo tra Confcommercio e Manageritalia, una “una tantum” di 2mila euro nel 2023 e un aumento di 450 euro lordi mensili entro luglio 2025.
Ma se un contratto non si rinnova ci perdiamo tutti.
Un contratto non si rinnova perché per farlo serve un accordo, semplicemente. Né le aziende, né i sindacati hanno l’obbligo di firmare un contratto nuovo. Le imprese, soprattutto in alcuni settori, fanno una resistenza molto forte a riconoscere ai lavoratori il dovuto. Sono anche settori in cui la capacità di mobilitarsi è poca, anche perché il lavoro è frammentato e precario. Nell’industria, per esempio, se non si rinnova un contratto fare uno sciopero è parte integrante della trattativa. Nel terziario, invece, questo è più complicato. Serve una legge sulla rappresentanza, che riconosca i contratti più rappresentativi e limiti la frammentazione. Questo eviterebbe anche i contratti-pirata.
E occorre regolare la vacanza contrattuale agganciando la parte economica dei contratti all’inflazione, questo sarebbe il vero incentivo a firmare i contratti.
Senza contrattazione non c’è libertà nel lavoro, senza rinnovo dei contratti di lavoro non c’è certezza di crescita per il Paese.
Antonio Votino direttore responsabile Infoquadri