Salario minimo e riforma della rappresentanza, scelte di civiltà
Ora che sembra certa la definitiva chiusura del Governo sul salario minimo resta lo spazio per una riflessione che consente di produrre una ragionata analisi di quello che accade sul nostro paese sul tema della rappresentanza. Sono passati più di vent’anni dall’entrata in vigore della riforma del sistema di rappresentanza collettiva nel settore pubblico e nel settore privato. Era il 1995 e c’era la pressione di un referendum in cui si ebbe un risultato per certi versi inaspettato, nei quesiti ve n’erano due sulla rappresentanza nel settore privato di cui uno per l’abrogazione totale ed uno manutentivo dell’articolo 19 dello statuto dei lavoratori ed una sulla rappresentanza del settore pubblico. L’esito fu contraddittorio in quanto ottenne un risultato favorevole all’intento dei promotori (quello dell’abrogazione parziale dell’articolo 19) e quello dell’abrogazione totale della disciplina della rappresentanza nel settore pubblico, mentre fu respinto il quesito relativo all’abrogazione totale dell’articolo 19.
L’originale risultato produsse la possibilità per il legislatore di non intervenire con una nuova normativa per i lavoratori privati come in effetti è accaduto, con una serie di incertezze interpretative che hanno generato contenziosi corposi, mentre fu reputato indispensabile un intervento di riscrittura complessiva della disciplina della rappresentanza sui luoghi di lavoro ma anche del sistema di contrattazione sindacale del settore pubblico. Il pregio di quanto avvenne poi fu quello di prevedere un’inedita rappresentanza sul luogo di lavoro che fosse espressione della volontà di tutti i lavoratori, infatti nella norma che scaturì dal referendum venne definita la rappresentanza unitaria del personale, la quantificazione della capacità rappresentativa di ogni sigla con un meccanismo che non mortifichi il dato associativo e valorizzi il successo di ogni sindacato ed una moderna modalità di rappresentanza sul luogo del lavoro come la rappresentanza sindacale unitaria. Fu solo parzialmente affrontato invece il delicato tema dell’esercizio dei diritti promozionali sindacati con un minimo di capacità continuativa per rappresentare i lavoratori in impresa.
Da più parti si afferma che rivedere la rappresentanza sindacale nel nostro paese sia ormai un intervento non più rimandabile però pensiamo anche che il concetto di rappresentatività sindacale è stato già rivisitato dalla legge nel corso del tempo e prima dell’intervento referendario l’unico riferimento nelle norme è alla legge 300/1970 e la Costituzione all’articolo 39 che da ai sindacati il potere di stipulare i contratti collettivi di lavoro vincolanti per tutti i lavoratori e quindi necessitano di essere rappresentativi. È pur vero che qualsiasi intervento normativo non può sanare quello che le parti sociali non vogliono e lo si vede soprattutto nel mancato rinnovo dei contratti collettivi, più del 50 % dei lavoratori in Italia ha un contratto non rinnovato da più di quattro anni il che è scandaloso se si pensa che con la contrattazione collettiva si vuole debba sanare anche il tema del salario minimo. Vero è anche che cè una diffidenza a lasciare al governo una delega in bianco al rinnovo del criterio di rappresentanza sindacale, per molti il rischio sarebbe nella possibilità di far abbassare lo standard delle situazioni in cui si ritiene che sia necessario far riemergere il lavoro nero per comprimere i salari e favorire ragionevolmente l’insediamento di nuove imprese utilizzando un modello di contrattazione più flessibile, calato a livello locale e con una rappresentanza rivista che si occupi solo dei diritti e non delle retribuzioni.
La questione della derogabilità al contratto nazionale a favore di un contratto di area si impone lì dove ad esempio zone economicamente forti possono creare e attrarre nuove imprese con un contratto che sia diverso dagli altri e che quindi abbia un contenuto anche relativamente alle norme basiche diverso da altri, la deroga però presuppone delle organizzazioni del lavoro diverse da oggi e nuove relazioni sindacali in azienda che si basino su una rappresentanza diversa e che esalti chi effettivamente in impresa rappresenta i lavoratori e non un sindacato calato dall’alto. Ma ora che il CNEL boccia il salario minimo, oltre a registrare la spaccatura all’interno dell’assemblea del CNEL lì dove anche i saggi nominati dal Presidente della Repubblica hanno votato contro, non mancano le voci autorevoli che affermano che il problema viene solo rimandato. Di certo c’è che in questo momento al governo del paese c’è una destra che non sapeva come gestire il tema delicatissimo del salario minimo e grazie al CNEL, che fornisce l’alibi e anche forse uno straccio di ragionamento da seguire, può respingere la proposta delle opposizioni e con essa allontanare ancora una soluzione che affronti il tema del lavoro povero che esiste ed è anche normato da contratti collettivi scandalosi.
Antonio Votino direttore responsabile Infoquadri