Sullo Smart Working il sistema Paese sta perdendo una grande occasione
Una innovazione non può mai essere introdotta per legge. Questo è ancora più vero per le innovazioni che toccano diritti e doveri nel lavoro. In Italia è stato introdotto per legge lo smart working, ci siamo arrivati impreparati come sistema normativo e come sistema di governance delle imprese, la pandemia ci ha messo in difficoltà e l’unica soluzione era quella di mandare tutti a casa. Ma è davvero facile ottenere la possibilità di lavorare da casa o da altro luogo diverso dalla sede aziendale? E chi sceglie di non adottare (perché non può o non vuole) lo smart working e rimanere in azienda che diritti ha?
La possibilità di lavorare da casa o, comunque, da luoghi che si trovano al di fuori dei locali aziendali, costituisce un elemento estremamente positivo sia per il datore di lavoro che per il dipendente. Eppure qualcosa sta sfuggendo all’analisi del fenomeno e che fa da freno alla sua applicazione nelle aziende italiane. Per prima cosa guardiamo i numeri, fortemente ridimensionati nel post pandemia rispetto il periodo Covid19, i 6,6 milioni di lavoratori in periodo pandemico a fine 2022 sono scesi a 3,6 milioni (anche se ben il 541% in più rispetto al periodo pre-Covid) e a fine 2024 si stima che aumenteranno a circa 3,8. Una tendenza cresciuta in particolare nelle grandi imprese, con oltre un lavoratore su due (1,88 milioni) in smart working ed in aumento anche nelle Pmi con 570mila persone, il 10% dei lavoratori, in smart working. Sono invece in calo nelle microimprese (620mila addetti, il 9% del totale) e nelle Pubbliche amministrazioni (515.000, il 16%). Ai vantaggi dello smart working per le imprese, che sono dati dalle chiusure delle sedi, e per i lavoratori con la possibilità di avere un tempo per il lavoro compatibile con quelli della vita personale, c’è anche un vantaggio per l’ambiente: per ogni due giorni a settimana di lavoro da remoto si evitano l’emissione di 480 chilogrammi di Co2 all’anno a persona grazie alla diminuzione degli spostamenti e il minor uso degli uffici.
Eppure a questa serie di fattori, che sono ascrivibili all’area dei vantaggi, vanno aggiunti elementi che portano a far riflettere soprattutto chi si occupa di ricerca sul lavoro: danni alla salute, aumento di patologie che riguardano la vista e per gli occhi; la postura e l’affaticamento fisico o mentale; le condizioni ergonomiche e di igiene ambientale; i rischi informatici; la perdita della socialità; tecnostress; l’insufficienza del diritto alla disconnessione.
La legge che ha introdotto il lavoro agile non prevede un vero e proprio diritto del dipendente ad ottenere lo smart working e lavorare da casa resta una concessione del datore di lavoro che può accettare o meno una eventuale richiesta in tal senso proveniente dal dipendente, come può cambiare idea (come il lavoratore) una volta concesso il lavoro da remoto. Molti lavoratori dipendenti, oggi, svolgono il proprio lavoro usando uno o più strumenti tecnologici, quindi connessi con la rete aziendale e con le informazioni in essa detenute. Per queste tipologie di lavoratori stare in ufficio fisicamente, rispettare un certo orario di lavoro e passare il badge è qualcosa di assolutamente ininfluente in quanto le modalità di esecuzione della prestazione di lavoro consentono loro di operare ovunque, anche al di fuori dei locali aziendali; si sposta l’attenzione quindi da quante ore si lavora a seguire l’esecuzione dei progetti e gli obiettivi da raggiungere nei tempi prefissati.
A molti sfugge però che, con lo smart working come ora fatto, vengono a sfumare tre obblighi chiave del datore di lavoro e cardini del contratto di lavoro subordinato: la sede di lavoro, l’orario di lavoro e la sicurezza al lavoro. Sono questi obblighi che gravano sul datore di lavoro dei quali se ne è completamente spogliato!
Ma se lo smart working, giuridicamente, non è un nuovo tipo di contratto di lavoro, ma è solo un modo diverso di eseguire un normale contratto di lavoro subordinato. Quali diritti rimangono al lavoratore che non accetta, perché non può o non vuole, il lavoro in/da casa? La legge, in caso di rifiuto dello smart working, è chiara: il lavoratore non deve subire alcuna ritorsione. Lo smart working non deve essere mai imposto dal datore di lavoro e deve rimanere una scelta libera e volontaria fondata sul consenso delle parti. Proprio per questo motivo, se il datore di lavoro prova a imporre il lavoro da remoto, il lavoratore ha il diritto di rifiutarsi senza alcuna giustificazione.
Ma se l’azienda chiude la sede? Come sta avvenendo nei comparti dei servizi e nell’information technology? Cosa succede a chi resta privo di un riferimento geografico aziendale?
Il rifiuto dello smart working è quindi un diritto legittimo e il datore di lavoro non ha strumenti legislativi per poterlo imporre ma il destino del lavoratore sarà il NULLA: una stanza vuota, in un piano di un edificio vuoto, in piena solitudine. Come nella foto che fa da copertina a questo servizio che riporta un ufficio dove il nostro lavoratore affezionato all’azienda come luogo fisico e vitale ed alla socializzazione tra colleghi si ritrova solo, in attesa che passi la nottata come diceva il grande Eduardo De Filippo …..
Antonio Votino direttore responsabile Infoquadri