Settembre 24

Smontata dall’applicazione reale, falciato dalle sentenze dei tribunali, deludente nei risultati prodotti. Secondo i suoi sostenitori ha fatto crescere l’occupazione, secondo i suoi detrattori la precarietà. Il tempo è ormai maturo, a quasi dieci anni dall’avvio della riforma che ha cambiato il mercato del lavoro, per una analisi, partendo dall’ultima sentenza della Corte Costituzionale, con le sentenze 128 e 129 del 2024, che hanno riscritto parte della disciplina del lavoro chiamata Jobs Act.

A uscirne ulteriormente indebolito è l’impianto del contratto a tutele crescenti, ovvero il cuore pulsante del Jobs Act. Le differenze fra la normativa renziana e l’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori vanno così assottigliandosi. Il quadro di riferimento tracciato dal Jobs Act era il diritto dei lavoratori assunti a tempo indeterminato e licenziati in maniera illegittima ad ottenere un risarcimento dall’importo crescente in base all’anzianità di servizio. Per questo a suo tempo venne utilizzata la dicitura di “tutele crescenti”. In tale quadro, il reintegro del lavoratore nel posto di lavoro era limitato a ipotesi rare e di estrema gravità. Ora con le due sentenze citate viene meno questo pezzo perché ritenuto incostituzionale. Secondo i dati Istat, da febbraio 2014 (anno di insediamento del governo Renzi) alla fine del 2016 (data delle dimissioni del governo Renzi), il numero complessivo degli occupati in Italia è cresciuto da poco meno di 22 milioni a circa 22,9 milioni. Usare questo dato a sostegno del Jobs Act ha però vari limiti. In primo luogo è necessario sottolineare che “occupati” e “posti di lavoro” non sono sinonimi, almeno per le statistiche Istat. Ricordiamo che l’istituto considera come “occupato” chi ha tra i 15 e gli 89 anni e nella settimana in cui sono stati raccolti i dati ha dichiarato di aver svolto almeno un’ora di lavoro retribuita. Rientrano tra gli occupati anche i lavoratori in ferie, in maternità o paternità, e quelli temporaneamente assenti per un periodo inferiore ai tre mesi. Gli occupati sono quindi una categoria più ampia di quella dei posti di lavoro, un’espressione che indica invece lavori più stabili. Inoltre va ricordata alla parte Pro Jobs Act che questo aumento però non dipende necessariamente dal Jobs Act, ma potrebbe essere stato causato da processi macroeconomici e da una generale ripresa dell’economia dopo la crisi del 2011.

Per comprendere davvero l’impatto che il Jobs Act ha avuto sugli occupati in Italia è necessario quindi uno studio più accurato. Il più noto tra questi è quello pubblicato nel 2019 dagli economisti Pietro Garibaldi e Tito Boeri, quest’ultimo presidente dell’Inps al tempo dell’approvazione del Jobs Act. Sfruttando una metodologia ormai classica nello studio dei problemi empirici, i due studiosi hanno confrontato gli effetti del Jobs Act sulla dinamica occupazionale tra le imprese con più di 15 dipendenti e quelle con meno di 15 dipendenti, dove i cambiamenti sono stati trascurabili. Il risultato dello studio mostra che il Jobs Act ha sì aumentato il numero di contratti a tempo determinato del 60 per cento, ma anche i licenziamenti rispetto alle aziende non trattate.

Per quanto riguarda l’impatto sui salari, uno studio di Michele Catalano ed Emilia Pezzola, ricercatori dell’istituto di consulenza e ricerca economica Prometeia, ha evidenziato che il Jobs Act ha comportato un aumento del Pil e della domanda di lavoro, con una lieve riduzione del tasso di disoccupazione, ma a fronte di un calo della “quota salari”, ossia della parte di reddito nazionale che va ai lavoratori.

In tema di Jobs act l’oggetto centrale del contendere, la bandiera da issare, è il ripristino dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori con il ritorno alla “tutela reale” in caso di licenziamento economico riconosciuto dal giudice come immotivato e dunque illegittimo. Va detto che la “tutela reale” non è stata una misura i cui concreti effetti corrispondessero al dettato formale, non esistono statistiche sul numero di dipendenti che effettivamente sono ritornati sul posto di lavoro da cui erano stati illegittimamente allontanati; i casi noti in cui ciò è successo hanno riguardato, in genere, lavoratori licenziati per ragioni sindacali o discriminatorie, fattispecie queste non modificate dal Jobs Act. Ciò che più spesso accadeva è che i dipendenti il cui licenziamento veniva ritenuto illegittimo dal giudice, venivano risarciti al termine di lunghi (lunghissimi assurdamente) processi, e spesso un accordo economico transattivo tra le parti veniva trovato in itinere, più per sfinimento che per diritto preso.

Se una critica può essere riconosciuta sia dai fautori del Pro che del Contro è che a partire dal 2017 s’impenna il ricorso al lavoro a termine. Per la prima volta nel nostro sistema di lavoro dipendente appare la precarietà, Inps ci informa che si superano nell’anno i 3 milioni di assunzioni, al netto degli stagionali. Eppure ci avevano detto che il tempo determinato essere riassorbito dal contratto a tutele crescenti, data la “maggior facilità” (vale a dire, maggior certezza degli eventuali costi) di ricorrere ai licenziamenti? Evidentemente le imprese continuano a preferire, ove possibile, il contratto a termine. Il contratto a tutele crescenti non pare un incentivo sufficiente a cambiare inveterate abitudini e visioni a proposito del rischio di assumere a tempo indeterminato, sempre vero il detto che le tare mentali non si modificano con una norma.

Molto resta anche da fare nei controlli: chi sa dire quanti sono i casi in cui i tanti limiti previsti all’utilizzo dei rapporti a termine vengono di fatto sforati o aggirati?
Adesso su tutto questo sommesso chiacchiericcio che nulla smuove nella rigida politica el lavoro di questo governo arriva l’onda dei referendum proposti: quello sul ripristino della tutela reale per le imprese over 15, quello sull’incremento dei costi di licenziamento per le piccole imprese, quello sulla reintroduzione generalizzata della causalità per i tempi determinati.

Tutto senza una visione organica ed una vista che vada al di la del naso (lungo per alcuni) e le necessità delle imprese ed il rispetto dei lavoratori.

Fonti citate:
https://econpapers.repec.org/article/eeelabeco/v_3a59_3ay_3a2019_3ai_3ac_3ap_3a33-48.htm
https://link.springer.com/article/10.1007/s40797-017-0057-z

Antonio Votino direttore responsabile Infoquadri

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