Settembre 24

In pensione mai, ecco la soluzione!

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Fa discutere la proposta, fatta uscire più per sondare l’opinione pubblica che non per una vera convinta presa di posizione, che il Ministro del Lavoro ha fatto circolare sulla possibilità per i dipendenti pubblici di restare al lavoro anche oltre i 67 anni su base volontaria. Sia il modo come è stata diffusa la notizia, una anticipazione da voci interne al ministero al Messaggero, sia la giustificazione a questa ipotesi per frenare l’esodo dei funzionari esperti lascia non poche perplessità. In manovra, secondo le fonti del quotidiano romano, sarebbe inserita una norma che manda in soffitta l’uscita automatica a 67 anni di età o 65 anni con 42 anni e 10 mesi di contributi. Il pensionamento diventerebbe una scelta volontaria e chi vuole potrebbe decidere di restare al lavoro senza presentare la richiesta di trattenimento in servizio: il contrario rispetto a quel che accade oggi. Chiaramente essendo questa una decisione ponderata d a lungo riflettuta nelle stanze ministeriali la novità non sarebbe accompagnata da incentivi o bonus per rendere più appetibile il prolungamento della vita attiva.
Assurdo? Impossibile da credere? Eppure a inizio anno una misura simile è stata prevista per i medici.
Di vero è che le previsioni che circolano da tempo sulla fuoriuscita per fine attività da lavoro dipendente nel 2025, 26 e 27 porta ad un numero elevato di uscite, tra raggiunti limiti di vecchiaia o dei requisiti per la pensione anticipata. L’età media nelle amministrazioni pubbliche è vicina ai cinquant’anni e già nel 2022 un dipendente su sette era nella classe di età 60-64 anni.
Che la situazione mettesse a rischio la funzionalità di molti uffici pubblici era chiaro già da tempo, come pure il fatto che visto l’andamento delle assunzioni, le rinunce dei neoassunti appena capiscono emolumento e costo della vita, escono i funzionari più esperti e reclutare giovani è sempre più difficile perché le condizioni salariali offerte dal pubblico a chi ha laurea e specializzazione risultano spesso non competitive con le opzioni disponibili nel privato.
Quaranta sono i miliardi che in meno l’Inps eroga in assegni previdenziali alle donne rispetto agli uomini; 40% circa è la media del differenziale previdenziale mensile tra pensionate e pensionati, e solo il 41% dell’occupazione è donna.
Anche questo è un dato di fatto. Le donne due volte penalizzate, nel lavoro e poi nelle pensioni. L’analisi dei divari di genere del mercato del lavoro e nel sistema previdenziale efa suggerire da tempo interventi che occorre mettere in campo per arginare uno scenario che già oggi destina alla povertà le anziane e che potrebbe assai peggiorare in futuro.
Le nostre pensioni, ogni volta che ne parliamo, assumono quel sapore nostalgico e questo perché continuano ad allungarsi i termini per raggiungere l’età della pensione che appare sempre più come una “lontana chimera”.
E la politica? E il Ministro che è competente in materia? Dal cilindro esce fuori una decisione che se confermata potrebbe aver preso anche il mio salumiere (e non offendo questa categoria!): non far andare in pensione chi ne ha il diritto.
Vorrei ricordare al Ministro e a chi legge che oggi, con il progressivo dei requisiti richiesti, l’età per la pensione di vecchiaia salirà progressivamente fino a 70 anni nel 2050, anno in cui gli anni di contributi necessari per accedere alla pensione anticipata saranno arrivati a 46 anni e 3 mesi. L’importo medio della pensione dei dirigenti italiani è circa quattro volte quello dell’assegno dei lavoratori dipendenti, Quadri compresi: 50 mila euro l’anno contro 12 mila. Per pagare le pensioni dei dirigenti, però, l’Inps deve andare a prendere le risorse dal Fondo lavoratori dipendenti (dove sono inseriti anche i Quadri) o degli atipici perché quello speciale dei dirigenti ex Inpdai è perennemente in rosso, dai 3 ai 4 miliardi negli ultimi anni. È uno dei paradossi del sistema previdenziale documentato dalla seconda puntata dell’operazione trasparenza avviata dall’Inps con la gestione di Tito Boeri. L’INPS ha stimato che se le pensioni dei dirigenti venissero ricalcolate con il metodo contributivo (attualmente in vigore per tutti, nella forma pro rata) anziché con i criteri favorevoli di alcuni decenni fa, gli importi scenderebbero in media di oltre il 23 per cento. I dirigenti, infatti, hanno potuto andare in pensione pagando fino al 1996 un’aliquota contributiva inferiore a quella dei lavoratori dipendenti (del 25,35 per cento contro il 32,70 per cento); oppure ottenendo un assegno pensionistico pari all’80% dell’ultima retribuzione con 30 anni di contributi anziché 40 come gli altri lavoratori.
Pensioni si ma non per tutti, scelte penalizzanti ma non per pochi. E’ il nostro Paese!
Fonti consultate per questo articolo:
Il Messaggero
INPS: Analisi dei divari di genere del mercato del lavoro e nel sistema previdenziale
FISAC/CGIL CRC

Antonio Votino direttore responsabile Infoquadri

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