L’economia non passa più per il Sud Italia
Il Sud Italia è rimasto prigioniero dei suoi eccessi comunitari familistici, clientelari e anche, in una certa misura, identitari. Una comunità incapace di salire sul treno della modernizzazione dell’Italia e che rischia di perdere anche quello legato al PNRR. Quando il Sud contava nell’economia italiana ed europea a Napoli c’era ancora l’Italsider, c’erano i distretti industriali pesanti, c’erano alcuni snodi importanti di politica nazionale: l’Isveimer, il Banco di Napoli, il Banco di Sicilia, la Cassa per il Mezzogiorno. Oggi quando giro le città capoluogo del Mezzogiorno registro il deserto di archeologia industriale che assedia le periferie.
Ma a rendere quel vuoto più evidente e pesante è sopraggiunto paradossalmente il deteriorarsi del tessuto comunitario profondamente erosi dai nuovi germi della post-modernità, dalla liquidazione dei rapporti e delle identità, consumati dalla politica via internet usa-e-getta, cancellati da quel processo di individualizzazione cybercentrica che sta mutando geneticamente il tessuto relazionale dei nostro secolo. A New York come a Dubai, a Mosca, a Milano come a Torino le grandi metropoli riescono a difendersi da questo virus disgregatore con le loro risorse societarie, accumulate e rivitalizzate se e quando gestite bene ma anche con solidi patrimoni di fondazioni e istituti bancari.
Senza una banca non c’è economia.
Lo sanno bene gli imprenditori, lo sa bene la politica. “In fondo a sinistra c’è sempre una banca” scrisse Vittorio Feltri commentando la telefonata di Fassino a Giovanni Consorte, in occasione “dell’occupazione” del Partito Democratico del Monte dei Paschi di Siena, quando esclamò: “Abbiamo una banca”, come se il suo partito ne fosse diventato proprietario. Proprietario no però sappiamo come è andata al Monte Paschi.
Una Banca pubblica per gli investimenti al Sud c’è già stata. SI chiamava Isveimer, Istituto per lo Sviluppo Economico dell’Italia Meridionale – fondato nel 1938 – controllato dal Banco di Napoli e dalla Cassa per il Mezzogiorno, a loro volta controllati dallo Stato, messo in liquidazione nel 1996 perché in un solo anno si era mangiato l’intero patrimonio con una perdita di 607 miliardi di lire. Si narra che quando il perito (nominato per la valutazione di un investimento) si recava sul luogo dell’insediamento industriale, chiamava da un telefono pubblico la sede Isveimer per comunicare “Ce sta’”; come dire, questa volta lo stabilimento esiste, non è la solita invenzione sulla carta, l’ennesimo gioco delle tre carte.
Al Sud l’unica risorsa al momento sembrerebbe essere l’identità. Molto software si potrebbe dire e poco hardware. Però è questa la forza di attrazione e rigenerazione capace di creare lo storytelling su cui si può poggiare la creatività, lo spirito di iniziativa e la proverbiale resilienza delle genti del Mezzogiorno. Provare a guardare la cosiddetta bottiglia mezzo piena, ripartendo dalla innovazione digitale, senza illudersi di potere emulare i fasti della Silicon Valley, ma generando con finanziamenti mirati e oculati una innovazione tecnologica a tutti i livello, nell’agricoltura che sorrege in molte parti del Sud l’economia, nella industria leggera che sembra rinascere dall’incendio distruttivo del passato scellerato delle partecipazioni statali. Si tratta di segnali ancora timidi. Napoli ha un hub che può fare da Competence Center di Industria 4.0 presso l’Università ma anche nei centri di Apple Academy ,Cisco, Deloitte, Accenture . La Puglia è tutta un cantiere di innovazione nell’agricoltura. La Sicilia è un ponte naturale con il medio oriente e l’Africa in grande sviluppo.
Serve una banca però, una Banca che sia forte e autorevole, possibilmente svincolata dalla politica e dal malaffare recuperando dal PNRR una cifra importante per una nuova banca pubblica per gli investimenti in grado di contribuire in modo diretto al rilancio dell’economia del Sud. Senza una Banca del Sud tutte le opportunità non avranno mai un carattere strategico.