La vera emergenza è il valore delle retribuzioni
Il primo Maggio resiste. Ad ogni anniversario della festa del lavoro è giusto chiedere se il Lavoro è ancora uno dei principi fondanti della democrazia, lo chiedo a me, lo chiedo a voi. Richiamata da tanti la lettera Costituzionale con il suo primo articolo, assunto fondamentale o vuoto richiamo demagogico?
Oggi è ancora un valore vero il lavoro?
Eppure a giudicare dal potere d’acquisto dei salari, che rappresenta la considerazione che ha il lavoro nella nostra società non si direbbe proprio.
Nel primo trimestre del 2022 la crescita delle retribuzioni contrattuali, per i contratti appena rinnovati è dello 0,6% rispetto allo stesso periodo del 2021 e considerata la persistenza della spinta inflazionistica ogni lavoratore, nel 2022, perderà potere d’acquisto di una percentuale del suo stipendio valutabile in quasi cinque punti.
Alla fine di marzo 2022, sono stati rinnovati solo 39 contratti collettivi nazionali. I contratti che sono in attesa di rinnovo per la parte economica salgono a 34 e coinvolgono circa 6,8 milioni di dipendenti, il 55,4% del totale. Ci sono lavoratori che hanno atteso il loro contratto scaduto per vedersi riconosciuto un piccolo aumento ben 17 mesi (dopo i tre anni normalmente di durata dei contratti collettivi, quando non rinnovato senza parte economica).
Gli aumenti mensili ottenuti vanno da 1€ (UN EURO) per l’edilizia e l’agricoltura ai 77€ per i minatori.
Il tema del lavoro non è solo legato al quello che non c’è, alla sicurezza sui luoghi di lavoro, della precarietà. Il lavoro deve riprendere la funzione di elevare la propria condizione sociale per cambiare
l’ordine delle cose esistente verso la dignità e la crescita sociale.
L’imperativo è di fare del lavoro il soggetto dell’economia e la base infrangibile dello Stato.
Le modalità di gestione retributiva possono avere impatti molto positivi o molto negativi in termini di capacità di un’azienda di attrarre e/o trattenere le risorse. Il nostro intero sistema Paese perde costantemente competitività a causa di chi non si piega ad uno sfruttamento intellettuale anche qualificato, di livello, ed emigra verso altri paesi con retribuzioni anche del doppio per la stessa qualifica e mansione. La motivazione delle persone non si misura con i costi generali. Sempre più aziende e interi comparti (pensiamo alla ricerca ed all’informatica) non trovano più talenti tra i neolaureati disposti a rimanere in Italia e le aziende combattono una guerra con multinazionali pagando in modo “aggressivo” dipendenti ritenuti strategici, con l’intento di renderli meno sensibili ad offerte esterne, ma con implicazioni negative in termini di costi, ma anche di equità interna percepita e quindi di engagement complessivo sul mercato.
In Italia il lavoro deve trovare nuove forme di organizzazione della sua tutela e di valorizzazione della retribuzione. I sindacati sono tra gli attori principali ma non unici in questa fase storica, molto devono fare anche gli imprenditori, un ripensamento inevitabile per loro è il tema del giusto salario.
Assistiamo in alcuni settori, in maniera embrionale, a nuove forme di organizzazione con tempi che non saranno brevi naturalmente, per arrivare a vedere la luce in fondo al tunnel, perché è il lavoro che crea economia e non il contrario.