Novembre 24

Mercato del lavoro: solo il 14,8% dei contratti è indeterminato

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Il mercato del lavoro italiano appare ancora intrappolato nella precarietà: dei nuovi contratti attivati nel 2021 solo il 14,8% era a tempo indeterminato, mentre il tempo determinato riguardava il 69,8% delle nuove attivazioni.
Sono alcuni dei numeri contenuti nel “Rapporto Inapp 2022: Lavoro e formazione, l’Italia di fronte alle sfide del futuro”. Le attivazioni di contratti stabili riguardavano il 16,7% dei contratti totali nel 2020 e il 15,2% nel 2019. Nel 2018, prima dell’introduzione del Decreto dignità e della stretta sulle assunzioni a termine, i contratti a tempo indeterminato erano il 14,6% del totale. (I dati Istat sulla disoccupazione in calo e sul boom di precari). l dato risente anche del fatto che i contratti a termine spesso sono di durata molto breve e quindi un singolo lavoratore in un anno ha più attivazioni. Il Rapporto Inapp sottolinea anche come il part time involontario coinvolga l’11,3% dei lavoratori (contro una media Ocse del 3,2%) e come i lavoratori poveri nel 2020 rappresentino il 10,8% del totale. Il lavoro povero è in crescita secondo le tabelle Eurostat 2021 (dato provvisorio) all’11,7% a fronte dell’8,9% medio dell’Ue a 27. Il nostro Paese – sottolinea l’Inapp – è l’unico dell’area Ocse nel quale, dal 1990 al 2020, il salario medio annuale reale è diminuito (-2,9%) a fronte di aumenti di oltre il 30% in Francia e Germania. Nell’insieme il lavoro atipico (ovvero tutte quelle forme di contratto diverse dal contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato a tempo pieno) rappresenta l’83% delle nuove attivazioni con un aumento del 34% negli ultimi 12 anni.
Malgrado alcuni segnali confortanti – ha affermato il presidente Inapp, Sebastiano Fadda, alcune debolezze del nostro sistema produttivo sembrano essersi cronicizzate, con il lavoro che appare intrappolato tra bassi salari e scarsa produttività. Per questo occorre pensare ad una ‘nuova stagione’ delle politiche del lavoro, che punti a migliorare la qualità, soprattutto per i neoassunti e per i lavoratori a basso reddito, per le posizioni lavorative precarie e con poche possibilità di carriera, dove le donne e i giovani sono ancora maggiormente penalizzati. La produttività – si legge nel rapporto – è cresciuta più dei salari quindi non solo la sua dinamica è stata contenuta, ma non sembrano nemmeno aver funzionato i meccanismi di aggancio dei livelli salariali alla performance del lavoro.

Secondo lo studio la flessibilità “buona” ha portato a un’occupazione stabile a distanza di tre anni dall’inizio dell’impiego precario per circa il 35/40% dei lavoratori (in tre fasce di tempo considerate a partire dal 2008-2010 fino al 2018-2021) mentre una quota tra il 30% e il 43% ha continuato a svolgere un lavoro precario, il 16-18% ha perso l’impiego ed è in cerca di lavoro mentre sono usciti dal mercato del lavoro il 17% dei precari (nel 2010 era il 3%).

cesmal

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