Il coraggio delle scelte difficili
Insistentemente nelle ultime settimane mi ritorna un pensiero del sociologo Domenico De Masi “Da un governo di destra ti aspetti cose di destra, da un governa di sinistra ti aspetti cose di sinistra” semplice, chiaro, direi quasi scontato eppure è lecito chiedersi perché il tema del salario minimo a 9 euro l’ora sia adesso in agenda, con un governo di destra alla guida del paese.
Che il tema sia importante è innegabile, in Italia ci sono più di 5 milioni di lavoratori che già adesso hanno retribuzioni al di sotto dei 9 euro, ciò che sorprende è che per i tre quarti di loro la retribuzione dipende da contratti collettivi li dove quindi è la contrattazione a fissare la retribuzione. I numeri dell’Istat sono chiari: i lavoratori con contratti non standard, brevi o a termine sono tutti al di sotto dell’importo dei nove euro. Di questi 800mila sono definiti al di sotto della soglia di povertà. Dove si concentrano questi lavoratori? Nel commercio e nelle professioni non qualificate, per il 40%, in questi settori un lavoratore su quattro non raggiunge i 500 euro. E’ un tema di sinistra? E’ un tema di destra? E’ un tema che riguarda il Paese, che va governato con politiche immediate per garantire la sussistenza a chi non arriva al sostentamento e con politiche di lungo periodo per rimuovere le diseguaglianze notevoli tra i contratti (l’esempio dei vigilanti e delle imprese di pulizie è sempre valido). Le paghe orarie medie previste dai contratti vede il 48% dei lavoratori con un contratto che hanno una paga oraria di massimo 10 euro, il 34% sopra i 10 euro, il restante è tutto posizionato nella fascia al di sotto dei 9 euro.
Siamo certamente lontani dai secoli in cui il lavoro in fabbrica e nei campi galvanizzava le discussioni politiche, ora che la separazione tra lavoro e reddito si è fissata, ora che la finanza proietta al lavoro vero solo una parte marginale del profitto di impresa c’è da chiedersi se il tema della retribuzione minima sia un tema di destra o di sinistra, davvero. Ciò che può diventare l’innesco per la bomba è la marcatura tra lavoro e povertà, c’è una fascia di lavoratori che il lavoro lo ha ma non riesce a sopravvivere, questo è un tema che non ha colore politico, non ha bandiera. Una volta lavorare era affermazione, individuale e familiare, si sceglieva il figlio più abile allo studio, più capace, più forte per mandarlo al lavoro. Con lui e con le sue rimesse da lavoratore viveva la famiglia lontana. Oggi chi manda un figlio a lavorare fuori non è certamente parte della popolazione più povera e quando parte il figlio si porta con se anche una parte del reddito familiare perché dovrà essere aiutato a vivere nella città dove lavora, aiutato a integrare il reddito da lavoro, e a casa non arriva nulla. Il governo comunque non pensa a breve di adottare provvedimenti strutturali contro il lavoro povero, e non pare nemmeno intenzionato a contrastare i contratti pirata o di comodo con stipendi e tutele molto minori rispetto a quelli di chi gode del CCNL principale. I contratti ritenuti maggiormente rappresentativi, firmati da Cgil, Cisl e Uil, sono solo 211 su un totale di oltre 940. Il comparto del commercio e dei servizi è una vera giungla con oltre 200 contratti registrati. Una giungla che arriva fino all’assurdo del contratto Assodelivery-Ugl per i riders, bocciato da diversi tribunali, che prevede solo “un compenso minimo per una o più consegne” pari a 10 euro l’ora che la piattaforma può “riparametrare” se stima che per recapitare il pasto sia servito meno tempo.
Occorre davvero riformare il lavoro prima che il lavoro riformi una società che ha dimenticato solidarietà e sviluppo.