Gennaio 25

L’aumento dell’età pensionabile automatico va cambiato

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Eccolo il dibattito sul caso Inps, la solita italica procedura: prima si approva una legge (la Fornero) che rende automatico l’aumento dell’età pensionabile (già abbiamo dimenticato che il gradino fu di ben cinque anni, creando un esercito di esodati senza pensione….), poi assistiamo alla crescita dell’età pensionabile per questo automatismo, alla fine la colpa sarebbe dell’INPS che lo ha applicato. Invece ciò che è avvenuto nel primo giovedì di gennaio non è che l’ulteriore applicazione di un assurdo meccanismo. Bisogna essere grati alla Cgil che ha evidenziato che il simulatore dell’Istituto di previdenza ha aumentato di tre mesi i requisiti per accedere alla pensione, facendo scoppiare la polemica politica. Di fatto da gennaio 2027, per accedere alla pensione anticipata, saranno necessari 43 anni e 1 mese di contributi, mentre dal 2029 il requisito aumenterà ulteriormente a 43 anni e 3 mesi. Anche per la pensione di vecchiaia si registrano incrementi, con l’età minima che passerà a 67 anni e 3 mesi nel 2027 e a 67 anni e 5 mesi nel 2029
“La Cgil esprime profonda preoccupazione per la recente modifica unilaterale dei requisiti pensionistici operata dall’Inps sui propri applicativi, senza alcuna comunicazione ufficiale da parte dei ministeri competenti e in totale assenza di trasparenza istituzionale”, aveva dichiarato la segretaria confederale Lara Ghiglione.
Leggi di più in questo articolo su cosa ha fatto INPS.
L’adeguamento dell’età di pensionamento e dei contributi necessari alla pensione anticipata è stato introdotto con il decreto legge 78/2010, con lo stesso provvedimento che introdusse la finestra mobile di 12 mesi per i dipendenti e di 18 per gli autonomi che di fatto rappresentava un aumento dell’età pensionabile per i dipendenti uomini da 65 a 66 anni. Si stabiliva che l’adeguamento della speranza di vita a 65 anni avrebbe dovuto essere triennale.
Di fatto il meccanismo come è adesso è stato poi sovrapposto alla Legge Fornero creando un vero inferno per migliaia di lavoratori che sono vicini ai singoli scaglioni e una incertezza di calcolo che porta a numerosi problemi. Nel 2012, con la legge Fornero, la finestra mobile di 12 mesi si è trasformata in un aumento formale dell’età pensionabile e la pensione di vecchiaia si otteneva al compimento dei 66 anni (per le donne del privato a 62 anni, si raggiungerà la stessa età degli uomini nel 2018 a 66 anni e sette mesi). Nel 2013 c’è stato il primo scatto di tre mesi e la pensione per gli uomini arrivava a 66 anni e tre mesi. Lo scatto successivo è arrivato invece nel 2016 ed è stato di quattro mesi, portando l’età a 66 anni e sette mesi. L’ultimo scatto con cinque mesi in più nel 2019: l’età di pensionamento è arrivata così a 67 anni. In questi anni viene aumentato anche il numero di anni di contributi necessari alla pensione anticipata, passati per gli uomini dai 42 anni e 1 mese nel 2012 a 42 anni e 5 mesi nel 2013, a 42 anni e 6 mesi nel 2014 fino ad arrivare a 42 anni e 10 mesi nel 2016. Nel 2019 è stata inoltre evitata con una legge l’aumento di 5 mesi previsto per la vecchiaia ma si è introdotta la finestra mobile di tre mesi. Sempre nel 2019 è arrivata anche Quota 100 che ha consentito a chi ha 62 anni di età e 38 di contributi di andare in pensione anticipata. Nel 2022 l’età minima con 38 anni di contributi per la pensione anticipata è salita a 64 anni mentre nel 2023 è arrivata Quota 103 con un’età minima di 62 anni e 41 di contributi. Nel 2024 si inaspriscono ancora le regole con il passaggio al calcolo contributivo per chi sceglie la pensione anticipata con Quota 103.
Ora è chiaro che questo meccanismo ed il sovrapporsi di norme, che hanno tutte l’obiettivo unico di ritardare il più possibile l’andata in pensione, penalizzi i nati nel 1960, i baby boomers, rimasti fuori dalla Quota 100 dato che per utilizzare la misura di anticipo della pensione ci volevano 62 anni compiuti entro il 2021 oltre a 38 anni di contributi versati e bloccati da un ulteriore aumento dei requisiti. C’è anche il rischio di creare nuovi ‘esodati’, lavoratori che hanno aderito a piani di isopensione o scivoli di accompagnamento alla pensione e potrebbero trovarsi per alcuni mesi senza tutele, scaricando poi i costi sui sistemi di previdenza complementare già in affanno per gli scarsi rendimenti degli ultimi anni.
Ora è il momento, anche per il governo di centro destra a guida Meloni, di mettere mano alla legge n. 92, di fatto superata dagli eventi, non fronteggiabili sul piano sociale con ammortizzatori limitati che anche la pandemia da coronavirus, che tanti effetti drammatici e tragici ha determinato. Vero è che risulta aver prodotto il benefico effetto di ottenere nel breve una curva inversa nella spesa pensionistica.
L’articolazione della tutela del reddito all’interno del rapporto di lavoro, nel nostro ordinamento continua ad essere sostenuta da tre pilastri: la cassa integrazione nella sua struttura originaria, nelle due versioni dell’intervento ordinario e di quello straordinario; gli interventi della cassa integrazione in deroga e, infine, i fondi bilaterali di solidarietà, articolati al loro interno per modelli di differenziate caratteristiche. Se questi restano i pilastri, senza alcun intervento a sostegno dei redditi, è inutile scaricare tutto il peso di un sistema normativo che non riesce più a dare al lavoro il suo significato vero di sostegno alla crescita sociale della popolazione ma si limita a registrare solo i fenomeni negativi di un invecchiamento anagrafico e dell’incapacità di immettere nuova forza lavoro (si veda l’aumento degli inattivi (aumentati di 28mila unità a Ott24 su anno precedente, fonte ISTAT, tra le donne e gli under35).
E’ quindi venuto il momento di mettere mano alle norme che regolano il pensionamento, frutto di iniziative, se non proprio estemporanee, di certo espressione di un arco visuale limitato, proprio di un decisore politico che, a fronte delle esigenze, ormai inderogabili, di riconsiderare radicalmente la regolamentazione dell’intero ordinamento, risulta ancora incapace di prendere l’unica decisione possibile: consentire il pensionamento sulla base dei contributi effettivamente versati, con una quota solidaristica a fondo comune, lasciando libero a chi vuole di andare in pensione dopo una età fissata secondo comparto e livello di usura nel lavoro, liberando la previdenza dalla assistenza che grava nei conti INPS, trattando le crisi aziendali (con i relativi scivoli pensionistici collegati agli accordi di volta in volta sottoscritti) come capitoli straordinari e non in carico al monte pensionistico.

Antonio Votino direttore responsabile Infoquadri

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